TITOLO ROMANZO

UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.
(Gli episodi vengono pubblicati in versione ridotta rispetto all'originale)

martedì 18 giugno 2013

Un giorno a caso ma per sempre (4a Puntata)



UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.


(4a Puntata)



Non era necessario chiamare Paolo per fissare appuntamento alle sette perché sarebbe stato a quell’ora al posto dove sapevano, comunque, in ogni caso; neve o grandine, terremoto o tifone, maremoto o uragano non sarebbero stati in grado di fermarlo. A Cris ora serviva una voce amica e a Paolo Robba una serata tra amici e un po’ di alcol per buttare giù tutti i semafori rossi, tutti i clacson, tutti gli insulti del capo spedizione.
“Ciao Robba…”
“Pronto…qui non mi prende un cazzo il cell, aspetta un secondo che mi sposto…
..Oh …mi senti?”
“Si, ok!”
“Ciao bello…”
“Ehi dove sei?”, indagò Cris
“Stò a Linate ancora… che due palle! Ma qui ho finito, porto il furgone in deposito e ci si becca al Trani..no?”
“Si..si..perfetto”
“…Ehi, Cris…tutto ok?”
Cris rimase sorpreso che Paolo si accorse di qualcosa di strano, ma apprezzò la sensibilità di una amicizia decennale
“Si..tutto ok…perché?”
“Boh, non so…tu che chiami con il cellulare anziché mandare i tuoi cazzo di sms…”.
“…dai non ti faccio spendere altri soldi, ci si becca al Trani dopo..”
“Yes…ciao, ciao!!!...Ah, Cris…”.
“Dimmi”.
“Manda un sms la prossima volta va! Che hai una voce di merda al telefono!”.
Cris sorrise, forse rise anche un pò. Concluse la chimata premendo sul tasto raffigurante una cornetta telefonica rossa. Attraversò Piazzale Cadorna costeggiando la fontana adornata con la terrificante statua simboleggiante “Ago e filo”, si fermò, la guardò per un istante chiedendosi come sempre quale genio creato quell'opera d'arte e quale illuminato avesse deciso di piazzarla proprio lì. Passo oltre dirigendosi verso la la grossa “M” bianca in campo rosso che indicava la fermata della metropolitana, fu quindi inghiottito nello stomaco della metropoli per risaltare fuori qualche chilometro più in la in P.ta Genova. Duecento metri e avrebbe attraversato il ponte di ferro che scavalcava il Naviglio grande, altri quattrocento metri e sarebbe stato di fronte al Trani.

Il Trani è una vecchia bottiglieria, “Since 1943” situata alle spalle della zona fashion e di tendenza dove fanno capolino i baretti affacciati al Naviglio Grande. E’ sito in un vicolo dove le caratteristiche case di ringhiera sbandierano i loro muri scrostati e gli intonaci instabili, dove i vestiti sono ancora stesi ad asciugare sui fili tirati tra i balconi sberleffando le direttive comunali, dove la gente è ruspante ed il vino economico. Nell’aria frizza ancora il romantico profumo di ligera, dei suoi locch e del Bonarda versato. E’ un locale piccolo, poco accogliente e fumoso (Si, al Trani si fuma dentro!). Il bancone è antistante l’ingresso, ha una superficie in ferro e un frontespizio di formica. Dalla parte dell’oste accoglie due lavandini ricolmi di bicchieri (Si, al Trani i bicchieri si lavano a mano!) e a lato sono disposti un paio di taglieri di formaggio grana e salame, pagamento “in natura” dei bottegai dei dintorni. Le pareti sono ricoperte di bottiglie polverose su scaffali instabili e bucherellati dalle tarme. Il pavimento è unto come può essere unto solo un maialino sardo prima della cottura. Se chiedi un cocktail ti rispondono “Che roba!?” Perché al trani si beve solo Bianco Sporco o Bonarda. Non ti va bene? “Fighetto, vai da un'altra parte!”. I personaggi che lo abitano sono folcloristici e strambi, una via di mezzo tra i nani del circo e i marziani dei Visitors. Il Capitano.
Il Capitano, solo sua madre probabilmente ne conosce il nome di battesimo; è l’oste, lunghi baffi, occhi profondi ed invacati, un uncino al posto della mano destra, una giacca blu ed un cappello da capo-vascello; si narra si sia ritirato sulla terra ferma dopo anni passati in mezzo alle schiume dell’oceano Pacifico, che a quanto racconta, probabilmente solo colui che lo battezzò così, cioè il capitano Cook, lo vide pacifico. La mano destra gli fu troncata di netto da un pescecane che si dice essere stato di 10 metri, il Capitano si salvò la pellaccia solo dopo aver lottato una notte intera con la bestia, ed essere sfuggito al suo morso assassino sino allo stremo delle forze dando prova di profonda virilità, ma, durante le ultime fasi della lotta la sua mano urtò la multipla fila di denti dell’animale e rimase talmente macellata che si dice fosse stato lui stesso ad amputarsela non appena in  salvo sulla barca. Nella carne, all’estremità del suo arto, racconta, gli rimase conficcato un dente, lo steso che mostra alla collana che porta al collo. Una delle varie enarrazioni racconta che abbia inseguito il suo nemico ittico per anni, per tutti i Mari del sud e che sia rimasto sconcertato a tal punto quando una sera al tramonto lo vide avvicinarsi a babordo della sua nave che pianse. Si dice che il capitano stesse gia brandendo l’arpione tra le mani, e il pescecane dopo essersi avvicinato con grandi movimenti eleganti allo scafo, affondò un poco per poi far riemergere la testa grossa come una Fiat 500. I presenti impallidirono, c’è persino chi vomitò dalla paura, ma il Capitano rimase lì, i due nemici si guardarono per attimi infiniti, ad un certo punto l’uomo alzò l’arpione, non, intimando il fendente, bensì proponendo la scoccata al pesce, lo squalo non si mosse e c’è chi disse persino che accennò con la testa un gesto di assenso. Il Capitano, con gli occhi lucidi, scoccò il fendente, colpi l’animale proprio in mezzo agli occhi, si sentì un rumore forte e stridulo mentre la lancia penetrava il cranio, in pochissimi momenti il nemico affodò, il Capitano fissò il Grande Blu per varie ore per poi girarsi verso la ciurma e comandare l’issate le vele: “Si torna a casa”.  La leggenda vuole che anche qualcosa del Capitano sprofondò nell’immensità dell’oceano insieme al suo nemico, non fu più lo stesso da quel giorno, le malelingue sostengono che sia solo un vecchio pazzo alcolizzato, ma a Cristian piace pensare che non sia così.
“Ehi, corpo di mille balene, che bevete ragazzi?!”
“Tre bianchi sporchi, Capitano!”
Al bancone del bar si era già formata la ressa composta da elementi di ogni tipo, dal muratore allo studente, dall’extracomunitario, al panettiere, e, in mezzo a questa marmaglia anche Cristian Beroli, Paolo Robba e Marco Rombi.
“3 Euri, forza! Lattanti!”
“Si, Capitano!” rispose Paolo entusiasta.
 I tre presero il loro bicchieri ed uscirono nella via dove anche li si era accalcata ormai un folla di persone, si appoggiarono alla muratura antistante il bar con i loro intrugli in mano.
“Ehi…e allora!? Ragas…che si dice della serata? Sa fuma?” sbottò Marco
“…Ehi l’avete vista quella fighetta che avevamo di fianco al bancone? Madoooo!!!”
“Eh..eh…Robba…già fatto!”
“Cazzo, Rombi, ma non è possibile, porca troia, io vorrei proprio sapere come cazzo fai ad infilargli quattro cazzate e portartele a casa…”
“Si…almeno a casa, che cazzo faccio ag presenti mè mama?…ohhh! Sveglia…la camporella…”
“Eh…bravo…fa così…a trent’anni stò qua è ancora in camporella…primo poi ti becchi qualche guardone del cazzo che te lo butta nel culo nella tua cazzo di camporella, poi voglio vedere…magari poi ti piace anche…tu che dici Cris?”
“Ma non so ne hai provate tante che tante, Marco, che quasi non mi sembrerebbe strano che cambiassi un po’ abitudini…tanto per variare un po’...” rispose Cristian
“Eh …scemo!...Vadavia al cu! è…a parte che sono ventisei gli anni…” replico Marco, “Comunque non sapete che cazzo mi è successo l’altar dì. Ero ad una festa lì dell’università… Un sacco di gente…praticamente, niente, carico questa sgarsula, oh! Giuro, due tet gigant
“Vabbè…comunque…dopo che mi faccio due coglioni così a cercare di convincere stà qui a farsi pastrugnare un po’, verso le quattro e passa si arriva un pò al sodo, la spoglio un po’ tutta…”
“…ma anche tu eri nudo?” replicò Paolo mentre sorseggiava il bianco sporco cercando di non perdersi le particolari gestualtà dell’amico.
“No, no, avevo appena tolto la maglietta…culaton! Comunque,..sono li sul più bello, la stavo scostando quando non mi suona per sbaglio il clacson muovendosi?…e io a momenti non mi cago adosso?”
“E tu?” chiese Paolo che stava già per scoppiare a ridere.
E nient…faccio l’indifferente e mi metto a sorridere con complicità. Non era passato un secondo che senti una vus ad una decina di metri dietro me ed una luce che illumina la macchina. Cazzo…oh! Le dico Vestiti!...”
“Ma era qualcun altro li imboscato?” domandò Cris.
“Ma va …era un pirla di metronotte…oh…aveva capito la situazione…sicur, probabilmente era in giro per gli istituti ed ha sentito il clacson, comunque.. la scena è questa:  la tipa che si riveste di colpo in panico, io con l’usè dur e sto qui che si avvicina…Che ci fate qua?!  Mi chiede quello ed intanto si guarda ben bene le tette della sgarsola, io non sapevo che rispondergli…che cazzo gli dici? Non mi viene in mente niente Sono l’idraulico mi hanno chiamato per un emergenza, a momenti non gli scoppio a ridere in faccia da solo.”
“E poi?” chiese Paolo.
“Poi, per fortuna niente, è scoppiato a ridere anche lui?!, Mi fa un Va la pirla! e se n’è andato via. E comunue stò stronzo se l’è lumata ben bene la tipa”
“Beh, ma alla fine te la sei incordata o no?!” chiese Paolo.
“Ma va…stà qua non ha voluto andare a casa, tutta incazzata, ma vaffanculo, allora ho chiamato la Gianna, che sapevo che era in giro perché l’avevo vista nei bar in centro ed ho dato due stangate a lei!”
Tutti scoppiarono a ride.
“Cazzo dai la Gianna no…ma è un gabinetto da competizione!” sbotto Paolo.
“Oh, bello c’è il periodo del filetto e quello del lesso, mica è colpa mia se il filetto me lo fanno solo vedere…, una azzannata al lesso non si nega mai però, non fatemi i sofisticati, che anche voi non mi sembrate tipi da nouvelle cousine!”
Il cocktail del Capitano era già entrato in circolo ed i tre avevano già raggiunto un bel grado di allegria chimica, stavano coricati ed accasciati dalle risate sulla golf bianca, ed era bello, era liberatorio, era quello che ci voleva dopo una settimana di lavoro, era tutto quello che avevano.

Marco Rombi è il più alto della compagnia e sin da piccolo la sua statura è sempre stata accompagnata da nomignoli più o meno offensivi, per di più, che fino ai sedici anni, età in cui anche un neo può bastare per essere preso in giro, era di una magrezza e di un pallore che lo facevano assomigliare per di più ad un tronco i pioppo che ad un ragazzino. Negli anni della maturità con la barba gli cominciarono a spuntare anche le spalle da carpentiere di suo padre e fatta eccezione per un po’di pancetta alcolica, possedeva un fisico che nelle calde estati passate a prendere il sole al Po, faceva impazzire tutte le ragazzine del paese. Non è possibile definire Marco uno sportivo, o per lo meno, non nel senso tradizionale e salutare del termine, visto che i suoi momenti atletici, oltre la degustazione di litri di Negroni e di quantità indicibili di mariujana, possono includere tutte quelle pratiche dove si rischia l’osso del collo. Carattere impulsivo e di animo sereno il Rombi possiede quella personalità magnetica, tanto invidiata dal nostro beniamino Cristian, che permette, a quelle rare persone che la possiedono, di far girare il mondo come più desiderano.
Al Rombi bastava dire “Ciao” più una sequela di frasi mezze in dialetto e mezze in italiano per trovare una ragazza, fare un colloquio per trovare lavoro, aprire la bocca per passare un esame, e fissarti negli occhi per convincerti di qualunque cosa. La vita per lui è un gioco, un enorme parco divertimenti con toboga, punching ball e giochi a premi, e lui tornava ogni sera a casa con il suo orsacchiotto.
E quella sera il Rombi ne voleva più di uno di orsacchiotti, voleva tutta la collezione Trudi e per lui ci volle veramente un nonnulla a trascinare i due compagni di una vita nei meandri delle “perverse” nottate milanesi.

La Impresa di Robba che schizzava per la circonvallazione interna come un razzo ignaro dei colore dei semafori, la musica drum and bass che suonava a volumi spropositati e i neon blu ultra-tamarri uniti alla pizza con le cipolle che galleggiava su decilitri e decilitri di bianco sporco e birra cominciavano ad agire negativamente sullo stomaco lavorativamente provato di Cristian. Era arrivato il momento di passare oltre. La chicca!!!
Con modi sofisticati, la sapienza e la maestria di un sommelier dall’esperienza decennale Paolo Robba dopo aver freneticamente rovistato nello scomparto “segreto” realizzato originalmente sotto il portacenere elargì una pasticchetta verde con disegnato il simbolo della pace a tutta la combriccola. Il rombi se la gettò direttamente nell’esofago prendendola al volo con la bocca dopo averla lanciata in aria, Robba ne prese una e mezzo, tanto per stare tranquillo. Cristian se la rigirò tra le mani per una manciata di secondi e poi “…ma chi se ne frega!”.
La memoria storica non è mai stato un punto forte di Cris, soprattutto riferita agli anni dell’adolescenza, ma in quella mezz’ora che lo separava dallo sballo non pensò ad altro che alla prima, e fino a quel momento, ultima volta che prese “la chicca”.
Era l’anno dei suoi coscritti, l’anno in cui avrebbe preso la patente, l’anno in cui secondo le sue previsioni avrebbe finalmente scopato, l’anno dei 18, l’anno in cui suo padre scopri di essere malato e l’anno in cui il dolore bruciava forte che gli strappava il cure dal petto, l’anno in cui il 9 Agosto il suo stomaco assorbì per la prima volta l’MDMA e l’anno in cui avrebbe deciso che l’estasy non avrebbe fatto più parte della sua vita. Ma si sa, così come l’effetto svanisce con lo svanire della causa, i buoni propositi sublimano con la memoria della ragione che ha indotto a formularli.
 E così, eccolo là il nostro Cris, seduto sui sedili ergodinamici dell Hyunday Impreza con l’alettone più grosso mai visto nella storia di tutti gli alettoni grossi. Lo sguardo fisso che gradualmente perdeva consistenza, il calore che sale, le paranoie che scendono e poi “…ma chi se ne frega!”.
“Oh rombi! E’ salita o no?” molestava Robba di continuo.
“Cazzo si…ma dove andiamo?” replicò Cris.
Si ritrovò come per magia in discoteca, come per magia si ritrovò un Cubalibre in mano, più tardi per qualche arcano malefizio si ritrovò la maglietta coperta di sangue e vomito, ed un energumeno che lo prendeva per il collo, più tardi ancora era l’energumeno che era coperto di liquido biologico rosso e Rombi era quello con un piede che pestava la sua faccia.
Poi Via Tibaldi.
Via Tibaldi correva estemporanea sotto i piedi di Cristian. La vetrina di un solarium diffondeva orgogliosamente luci ultraviolette sul marciapiede antistante, il ferramenta aveva la serranda abbassata coperta di scritte a bomboletta, la macelleria musulmana vantava le sue scritte incomprensibili e i lampioni dominavano con il loro collo da giraffa e il loro occhio vigile sul silenzio della città. La lucidità prendeva a a momenti spazio nella testa di Beroli ma il tentativo di poter ricostruire, anche parzialmente, la serata sarebbe stata un impresa inutile. Solo pochi attimi prima Paolo Robba aveva scaricato il nostro eroe in piazzale Lodi a modo che in pochi minuti avesse potuto raggiungere i Navigli senza far rischiare all’amico eventuali spiacevoli incontri con le forze dell’ordine normalmente di posta all’ incrocio dell’alzaia pavese, ma anche quello era già un ricordo vago. L’MDMA aveva dato la forza, l’acido lisergico aveva creato l’ambiente, ma ora l’energia era calata ed il nostro avatar possedeva solo le magie allucinogene che erano sfuggite al controllo ogni passo risultava una montagna da scalare e la tranquillità una meta irraggiungibile.
Arrivato all’altezza del naviglio pavese si accorse quasi all’ultimo istante che la strada che conduceva al suo bolide era ricoperta da 20 cm di acqua stagnante fuoriuscita dal canale. (Peccato che fosse arrivato in metro e non in auto, ma non aveva ancora realizzato. N.d.A). Si fermò. Si guardò intorno. “Ma possibile che nessuno abbia avvertito chi di dovere per ristabilire la situazione?”. Si girò nuovamente, fissò nuovamente la pozzanghera, era incredulo che nessuno avesse avvertito i pompieri del problema, di fronte a lui c’era un lago di acqua! Si guardò intorno nuovamente. Cercò di chiedere informazioni ad un altro nottambulo come lui, ma ottenne per risposta solo un “…ma vaffanculo” …probabilmente era sbronzo. Cristian replicò con un …vacci tu vaffanculo. Si, ma la situazione era critica, come andare a casa? come passare l’inondazione? Cristian si girò nuovamente e vide l’acqua muoversi, come se qualcosa si agitasse sotto. Aguzzò lo sguardo, fissò delle piccole onde che increspavano l’acqua e che si dirigevano verso di lui. Si scansò. Fece un passo indietro. D’un balzo, una frazione di secondo, un frammento di frazione di secondo e due enormi fauci uscirono dall’acqua e si proiettarono veloci contro di lui. Cristian in quei pochi secondi ne fu sicuro, era uno squalo. Era per forza uno squalo bianco, il Capitano insegna; l’unico che può saltare fuori dall’acqua.

venerdì 3 maggio 2013

Un giorno a caso ma per sempre (3a Puntata)


UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.

(3a Puntata)



Se può andar male, andrà male!
Cosi recitava lo screen saver di Cristian Beroli la mattina del 10 Gennaio. E’ chiaro che non si trovasse in un periodo d’oro. Non era certo in un “momento di grazia”, come era solito chiamare le fasi della vita in cui tutto scorre a favore di corrente. Gli alti e i bassi si susseguivano freneticamente anche se erano più le sfumature di bassi che dominavano facendo stridere le giornate come i freni della sua Fiat Ritmo.
Da cinque anni aveva lasciato Pieve Marasso. Da cinque anni aveva lasciato l’Università. Da quasi cinque anni abitava in un microappartamento vicino Piazzale Loreto.
Sia chiaro, non che stesse male a Pieve Marasso, ma la piccolezza di un paesino operaio dell’interland milanese lo faceva sentire ancora più piccolo ed insignificante; lo castrava, copriva i suoi sogni e le sue ambizioni di una coltre di fumo, spessa, come quella che offuscava il cielo sopra i camini della Tessile.

La Tessile Brachetti. La stessa industria odiata e amata dai compaesani della famiglia Beroli, la stessa che occupava l’intera popolazione della zona, la stessa che era stata oggetto di pianti, di odio, di rabbia e di speranza, la stessa che lasciò Carlo, padre di Cristian con il culo a terra e con un misero sussidio da cassa integrato.
La fabbrica si ergeva a mezzo chilometro da Pieve Verga proprio sulla strada che portava a Pieve Marasso. Ogni mattina e ogni sera quella via era percorsa da 400 operai in tuta blu. Una fiumana di esseri umani dai visi stanchi dalle mani ustionate dalla soda e dagli acidi. Un carnaio di sogni infranti e speranze che pedalava stancamente verso i fumi delle ciminiere. Da Pieve Marasso lo sterrato si tramutava velocemente in asfalto solo a pochi metri dall’inizio delle mura che costeggiavano lo stabilimento. Una cinta di mattoni rossi, alta un paio di metri, delimitava l’area industriale; sopra di essa spiccavano, brillanti al sole e minacciosi alla pioggia, dei frammenti di vetro grossolanamente incementati che ammonivano eventuali malintenzionati. I bastioni percorrevano entrambi i lati della strada, che ad una certa altezza era tagliata da un binario ferroviario sopra il quale svariate volte al giorno sbuffava una piccola locomotiva atta al trasporto dei materiali pronti per la distribuzione. Le biciclette degli uomini in blu salterellavano su quei binari lanciando un rumore sordo e i ciclisti lasciavano dietro di se solamente l’odore delle sostanze chimiche che impregnavano i loro abiti e la polvere che le loro ruote aveva trasportato dalle campagne. La strada era vuota e desolata durante i turni di lavoro, per ritornare gremita al suono delle sirene che quattro volte al giorno risuonando grevi nell’aria sopra le risaie fino a raggiungere le case dei paesi limitrofi.
Erano momenti duri a Pieve Marasso negli anni ’70, era il periodo delle lotte operaie e dei sogni infranti, erano gli anni in cui le speranze per il futuro erano i figli, il desiderio di vederli diversi dai padri, magari avvocati o medici, e allora questi sogni rendevano più leggero il lavoro in alle vasche o ai lavaggi, ma poi le prime riduzioni del personale, e allora scioperi, bandiere rosse, teste spaccate. Carlo militava nel servizio d’ordine dei cortei, ci credeva, credeva che le cose potessero cambiare, credeva, credeva. A cinquant’anni la cassa integrazione si trasformò in licenziamento, e superato gli “anta” chi ti prende? Momenti duri a Pieve Marasso. Già in cassa integrazione, il papà di Cristian arrotondava aggiustando biciclette e vedeva questo figlio crescere, e cresceva alla velocità della luce per davvero, all’età di 7 anni dovette cambiargli il guardaroba tre volte tanto crebbe, ma quelli erano momenti diversi, il cuore della gente era grande e ci si aiutava, e allora i pantaloni passavano di vicino in vicino e Angela, la madre di Cristian, aggiustava orli, passanti, sistemava bottoni e li adattava al nuovo inquilino.
Cristian fu concepito quando la madre Angela, di dieci anni più giovane del marito, non era più una giovanotta e per loro quel bambino biondo era più prezioso dell’oro.
Il padre di Cristian morì all’età di settantadue anni per una brutta malattia che lo colse improvvisamente due mesi dopo la laurea del figlio.

Cris prese armi e bagagli e portò il suo culo egoista nella grande metropoli con il letto del padre ancora caldo. Angela non ebbe la forza di convincerlo a rimanere. Era così debole, durante la malattia di Carlo le si poteva vedere lo scheletro tanto era dimagrita, i suoi capelli bianchi non vennero più coperti dalla tinta e il suo sguardo divenne vitreo. Invecchiò bruscamente nel giro di pochi mesi e per tutto il periodo della “passione” del marito non lasciò mai casa, anzi, non lasciò ma il capezzale se non per i bisogni fisiologici più impellenti. Ogni sospiro del marito che non rappresentasse la normalità più assoluta era per lei motivo di allarme. Ogni movimento era per lei un momento di speranza anche quando il corpo di lui era solo pelle che copriva una impalcatura di ossa ormai ridotta allo stremo.
Nell’ultimo mese della sua vita, Carlo non respirava quasi più, i polmoni erano ormai sopraffatti dal male e il suo sangue era già ossigenato come quello di un cadavere, ma Angela non perse mai la speranza anche se in fondo al suo cuore sapeva benissimo quale fosse la cosa migliore che la sua tanto cara ed amata croce di Gesù non avrebbe mai acconsentito. Non sopportava più la sofferenza di quell’uomo, non riusciva più a vedere neanche l’ombra dell’uomo che aveva sposato. Quella pelle e quelle ossa su quel letto non  erano più il suo uomo e se qualcosa di vitale c’era ancora in quel corpo sperava che se ne andasse via velocemente perché sicuramente sarebbe stato più felice altrove e non attaccato ad una miriade di costosissimi tubi e sottoposto a monitoraggi costanti coperto da piaghe su un letto antidecubito nel salotto dove per decenni desinarono insieme ridendo o discutendo. Pregava, pregava a modo suo che se ne andasse. Pregava che se ne andasse naturalmente. Pregava affinché Dio tagliasse quei tubi che lo tenevano ancora inchiodato a quel dannato letto. Supplicava che fosse Lui a portarselo via dal momento che le Sue leggi maledette impedivano che lo facesse lei stessa.
Una mattina di primavera Cris venne svegliato alle sei del mattino. “Papà è morto. Controlli anche tu per favore?” Il suo modo di fare era sereno e provato, come quando una dura prova è passata. Cris sentì un brivido correre lungo la schiena. Un brivido freddo, gelido, ghiacciato, arrivò fino agli occhi, che divennero lucidi. Si alzò di colpo e a passo spedito si diresse in salotto. Il viso era più bianco del solito, il corpo freddo, i polso silente.
“Se n’è andato?” sussurrò la madre con far rispettoso.
“Si, mamma. Papà se n’è andato”.
“Bene” sussurrò Angela.
Cris si voltò,la abbracciò per una attimo e si sedette sul letto della madre che era disposto da mesi ormai di fianco a quella che è ora la salma del marito.
Il figlio abbassò la testa e dopo un attimo un pianto nervoso, violento incontrollabile salì dal suo stomaco, un formicolio cingeva la sua testa e non riusciva a smettere. Non riusciva a smettere.
Angela con un sorriso si avvicinò a lui. Gli mise una mano in testa, sorrise dolcemente mentre i suoi occhi per troppi mesi inespressivi diventavano finalmente lucidi e gli disse delle parole che non scordò mai. “Ti ha voluto tanto bene, non immagini quanto, gli hai dato tante soddisfazioni e ora ti proteggerà sempre”.

La prima casa che Cris trovò a Milano era un vero buco. A vederla nessuno avrebbe giurato che fosse più di 10 metri quadri, tra l’altro ad un prezzo esorbitante. Le pareti che una volta furono bianche erano ora ingiallite dall’umidità e dalle perdite dalle tubature, tanto che in alcuni punti il gesso era ricoperto da uno strato nero di muffa. Era comunque la sua prima casa “personal” e non poteva che adorarla anche se intrisa di un vomitevole odore di marcio. Cercò di abbellirla come poté, ma dopo l’entusiasmo iniziale si rese conto dell’impresa impossibile e si mise subito alla ricerca di una soluzione migliore che non tardò ad arrivare.
Stava seduto rilassato in una baretto in Cadorna, sfogliando Vivimilano alla ricerca di qualche alternativa alla serata, sorseggiandosi un Negroni Sbagliato fini sulla pagina degli annunci immobiliari.

 Piazzale Loreto MM, affittasi bilocale vuoto o arredato di 45 mq, libero subito, composto da ingresso, soggiorno, angolo cucina, camera, bagno, piccolo balcone, parzialmente ammobiliato, da non perdere!!!
E Cris l’occasione non la perse. Sfilò il cellulare dalla tasca interna dell’abito, compose subitaneamente il numero indicato nell’annuncio, dopo due squilli la risposta, dopo 1 minuto l’appuntamento, dopo 1 ora era in piazzale Loreto sotto il portone 32a. 
Sul citofono premette “Malaguti”.
“Dottor Beroli, salga pure, è il secondo piano” rispose la voce dall’altra parte del citofono.
Fu una fortuna aver la possibilità di visionare l’appartamento il giorno stesso, e come gli confermò il proprietario stesso, non c’era da perdere tempo, c’erano già tre possibili affittuari che avevano richiesto un paio di giorni per pensarci. Il signor Malaguti, il proprietario dell’appartamento era già sul pianerottolo ad attendere il nostro eroe quando aprì la porta dell’ascensore piacevolmente vintage. Si strinsero la mano.
“L’appartamento che le interessava è qui al piano superiore, ha tempo per un caffè intanto che poi la porto a visitarlo?” domandò l’uomo.
“Certamente, molto volentieri” ringraziò Cris notando lo strano abbigliamento, ma il bello, si rese conto poi, doveva ancora arrivare.
“Prego, si accomodi pure in salotto, ho già messo su la moka a scaldare, sa… io bevo solo caffè fatto con la moka, non quelle schifezze fatte con la macchinetta… sarò un po’ old style ma mi piace molto di più così… lei no crede?” fece il Malaguti dirigendosi verso la cucina. Nel frattempo Cris si accomodò sull’ampio divano di pelle… di mucca! Si guardò intorno “mio dio!” pensò “ma cos’è questa la casa del Vizietto?”. Pareti tappezzate con motivi sul genere flowerpower anni ’60, lampade al plasma in stile fricchettone, sedie con impottiture di velluto rosa e moquette in pan-dan. Se presi singolarmente questi “ninnoli” erano raccapriccianti di per se, nell’insieme il tutto risultava di un kitsch estremo oltre ogni limite.
Il nostro eroe non poteva per cortesia esimersi dal fare apprezzamenti per lo stile. Ma che dire. D’altronde è così gentile…
 “Malaguti, lo stile di casa sua è assolutamente originale, sa che mi piace molto?!” disse con tono sostenuto Cris a modo che il commento arrivasse sino in cucina.
“Dice?!” fece il Malaguti dirigendosi con il vassoio e i caffè verso il tavolo Luigi XV. “La ringrazio, ma ora sono un po’ stufo, vorrei rinnovarlo un po’, è tanti anni che è così, sa? Mi piacerebbe fare un genere un po’ africano, sa?…Selvaggio… Se decidesse di prendere l’appartamento potrei passarle qualche oggetto. Sa?! La signora che c’era prima era una tale vecchiaccia appassionata di antiquariato vecchiaccio come lei che, mi dispiace dirlo, ma sa sono una persona schietta io, sa?! Ha reso l’appartamento triste come una chiesa. Orribile sa!?”
Eh si… chissà che figata con un bel divano di mucca! Pensò Cristian girandosi verso il Malaguti. Non credette ai suoi occhi. Ma come cazzo è vestito?! Non avevo notato prima…mi sembrava un accappatoio mica un…
Il Malaguti indossava un kimono giapponese di seta rosso con ricami di draghi in filo d’orato, ai piedi però veniva mostrato il vero gioiello.
“Malaguti, mi scusi se sono un pò sfacciato, ma che cos indossa ai piedi?”
“Ah… vedo che le ha notate…”
“Beh sarebbe impossibile il contrario…” ribattè Cris che rendendosi conto di essere stato poco cordiale aggiunse “sono di una tale particolarità…”
Il Malaguti: “Sono sandali tradizionali giapponesi… vede sono di legno, di vero legno, sa?!...Di prima qualità… eh..eh… lo so cosa pensa…no…no non sono come gli zoccoli… quelli sono per i rustici, qui hanno aggiunto queste due listelle di legno sotto, che fanno un po’ da palafitta, capisce…eh…eh… sono come una palafitta… per rendere più comoda la camminata”
“Ah…”  fece eco Cristian che aveva visto simili calzature infradito solo nel cartone animato Sanpei e che non credeva esistessero davvero.
Cristian si alzò e si diresse verso il Luigi XV per prendere la sua tazzina.
“Ma no stia pure sul divano… glielo porto io il caffè…”  tentò di interrompere il Malaguti.
“Ma si figuri…” replicò il nostro ospite cercando di evitare che il Malaguti si sedesse di fianco a lui.
Cristian non era intollerante, ma non aveva mai apprezzato la necessità di gran parte del mondo gay, tra cui evidentemente il Malaguti, di voler far riconoscere in modo spesso appariscente il loro stile di vita “alternativo”.
Così si alzò bruscamente. “Malaguti, scusi è… ma ho un appuntamento tra mezz’oretta con una mia amichetta…sa!?” disse Cris per non lasciare dubbi. “…non potremmo andare a vedere l’appartamento?”
“Certo…Certo..” Fece il Malaguti tamponando il  suo entusiasmo.
L’appartamento, come aveva anticipato il Malaguti, era effettivamente arredato con uno stile un po’ retrò, tipico degli anziani… tavoli in legno laccati, vetrinette, insomma il tipico mobilio che si abbinerebbe con il centrotavola all’uncinetto; ma a Cris andava perfetto era proprio quello che cercava, al limite, come aveva confermato lo stesso proprietario non c’era problema per i mobili bastava portarli in cantina e comprarne di nuovi, “non erano incollati al pavimento”.
“Malaguti, lo prendo! Le do l’anticipo ora se serve per bloccarlo!” sbottò Cris.
“Oh… bene! Sono proprio contento, sa Dottore?!… gli altri non è che mi piacessero tanto, due erano coppie e il terzo aveva una faccia scura che non mi piaceva proprio! Che felicità un po’ di gioventù in questo palazzo…” . “Un pianerottolo di giovani qui… L’appartamento di fianco è abitato da una ragazza straniera..”, “una negretta..” disse bisbigliando, “..l’amante di un grosso avvocato..  così carina con un vecchio così….” Ritornando al volume normale: “Comunque è giovane e sono sicuro che vi intenderete a meraviglia da vicini…quanto adoro i bei rapporti di vicinato…sa…tipo…mi serve lo zucchero, il sale…Bene..Bene!”
“Come facciamo allora?!..Per l’anticipo, non so vorrà pure un deposito…” disse Cris.
“Non c’è problema Dottore, venga qui domani mattina e sistemiamo tutto. Aveva un appuntamento no tra poco? Consideri l’appartamento già suo!”
 Nel giro di due giorni Cris aveva già disdetto l’appartamento precedente e si era insediato nel nuovo, con tanto di regalo da parte del Malaguti. Una “Splendida” copia di un quadro di Basquiat. Il minore dei mali.
I mesi a seguire furono dedicati in primis alla ricerca di un lavoro, che tra l’altro non tardò ad arrivare, e ad una missione ben più complicata rendere quelle quattro mura casa sua.
Quel mese sostenne una quindicina di colloqui e alla fine “boom!” la botta di culo. Una telefonata dal Direttore del personale della Secon Spa. Non credeva alle sue orecchie. Un sacco di soldi e possibilità di crescita. Nonostante il dolore per la morte del padre Carlo fosse ancora fresco probabilmente lo stava davvero proteggendo dall’alto e lo sentiva veramente vicino tanto che a volte si ritrovava a parlarci insieme.
I mesi passarono veloce e la casa fu rodata con estrema efficienza sia dal passaggio di varie “signorine” sia da cene tra amici ubriaconi. Ma poi la novità cominciò a diventare abitudine e l’abitudine monotonia.
Casa “sua” diventò ben presto solo il posto dove dormire e anche il piacere che provava inizialmente nel cucinarsi da solo la cena fece spazio ad una gran noia. Così, come accade spesso nella vita, la routine diventa la temuta solitudine. 

Dopo cinque colloqui di cui due con psicologi, due con gli specialisti di risorse umane ed uno con quello che sarebbe poi stato il suo superiore, Cristian fu impiegato alla Secon Spa. Come compagni di merende i figli dell’alta società cocainomane milanese, figli dello sballo del venerdì sera in privè e auto di lusso, figli del dolce fancazzismo quando dietro una scrivania, ma tutto questo corredato da un gran culo parato dal benevolo papi gonfio di arroganza e pacche sulle spalle
Cristian odiava i fighetti. La sua maglietta preferita è sempre stata quella da non dover cambiare la mattina e i pantaloni migliori quelli rimasti sul pavimento dalla sera prima, eppure da che introdotto nel mondo business milanese si convinse ad auto-allinearsi all’ambiente e dopo quasi cinque anni di duro lavoro quotidiano per profilare gli spigoli più acuminati il risultato tardava a palesarsi.
Nonostante portasse dentro di se la fierezza delle sue origini “paesane”, a Cris infastidiva apparire come il poveraccio che veniva dalla periferia. Con fatica sopportava gli sguardi superiori e la stima compassionevole, per lo meno lui la credeva tale, di alcuni suoi colleghi; da un certo punto di vista voleva essere uno di loro dall’altro li odiava profondamente per quello che rappresentavano. Li odiava, odiava i loro modi di fare, odiava i loro profumi da 300 euro, odiava le loro facce lampadate, odiava la vita facile che avevano avuto, ma ora quello che avevano loro lo voleva pure lui.
Ma è possibile che stò cazzo di computer si blocchi sempre…FATAL ERROR…eh…la madonna!
…ma se ho schiacciato solo…
“Stai cercando di fregarmi?”
Cristian alzò gli occhi dal video stupito da tono arrogante .
“Giangi, buon giorno…già incazzato alla mattina…”
 “Forse non hai sentito, ma ti ho fatto una domanda, stai cercando di fregarmi?
“Sei fuori?”
“…non mi piace quando qualcuno cerca di mordermi il culo appena mi giro…”
“Ehi, Giangi, ma sei impazzito?”
“Si, adesso fai finta di niente, vero?”
“…Abbassa i toni…”disse Cristian con aria intimidita ma risoluta fingendo di rimettersi al lavoro.
“Tranquillo, tanto l’ho capito che tipo sei, non posso pretendere…vero?”
Cristian sapeva benissimo a cosa si riferisse, ma era stufo, stanco ed annoiato di dover dividere i risultati del suo progetto con uno che considerava solo un arrampicatore sociale inetto ed egoista, che tra l’altro non aveva mai neanche tentato di mettere mano su nessun report ma di mettersi in tasca solo i meriti.
Quando cominciò a lavorare presso la Secon S.p.A. al Dottor Beroli fu affidato un gabbiotto nell’open space, un computer ed un collega supervisor che aveva la funzione di introdurlo al lavoro nei primi mesi, lavoro che sapeva già benissimo fare. Giangi, al secolo Gianluigi Saguce, figlio del parlamentare Gianni Saguce, cugino del Cardinale Monsignor Gaetano Saguce era il suo supervisor, era riconosciuto ad unanimità nella sua sezione aziendale essere il più palesemente fiero raccomandato della ditta, 37 anni, di cui 10 passati all’università o meglio agli aperitivi universitari dell’ateneo pavese, lo stesso in cui studiò Cristian, e a lui erano ben noti i virtuosismi del Giangi.
“Allora… vero?”…insistè Giangi.
Allora cosa? Brutta testa di cazzo. Allora cosa? Vuoi sapere allora cosa? Allora sei un incapace che non riesce a fare due più due senza avere il supporto del papà, cosa credi che non sappia come sei finito qui? Io, qui, bello, mi devo guadagnare la pagnotta e non ho tempo di seguire i tuoi cazzo di ritmi giamaicani quando devo consegnare un lavoro, visto che il cazzo di lavoro l’ho fatto io…Chiaro!? ” così avrebbe voluto replicare Cristian. E questa volta così fece.
Giangi divenne di un rosso violaceo e il suo faccione già pingue si gonfiò come la camera d’aria di una graziella, stava per esplodere, gli occhi gli divennero lucidi e sporgevano fuori dalle orbite come se la pressione intracranica avesse raggiunto le atmosfere delle gomme di un trattore; le teste di tutti gli altri colleghi sporgevano ormai da sopra i rispettivi divisori in attesa di una replica da parte sua. Era difficile immaginare che dalla sua obesa boriosità non potesse fuoriuscire una replica pubblica schiacciante, eppure fu quasi così.
La replica non fu pubblica, anche perché non sarebbe stato così banale ribattere affermazioni così palesemente vere, ma la replica ci fu, sussurrata, sogghignata:
“Eggià! non è facile per un figlio di due morti di fame come te stare qui, vero? Vediamo però per quanto tempo ci starai ancora, e poi voglio vedere la tua pagnotta dove la vai a recuperare, forse alla mensa del frati, coglioncello!”
Cristian lo guardò, si guardò in giro, gli vennero le lacrime agli occhi dalla rabbia, sperava che nessuno se ne fosse accorto, fissò nuovamente Giangi e si guardò nuovamente in giro.
Nessuno ha sentito…
Giangi intanto se ne andò per il corridoio a testa bassa, ai colleghi intimò un Che avete da guardare? Non avete del lavoro da fare. E così si allontanò.
Cristian sicuramente ebbe la vittoria morale, ma come faceva ad accettare senza reagire con un invettiva decisa e violenta contro un tale soggetto. Nella mente vide i visi dei suoi genitori, vide sua madre a cucire i cucina, vide suo padre ritornare in casa stanco la sera, senti la loro eredità morale venire distrutta da un fighetto borioso; poi vide se stesso ed i suoi amici, anni prima per molto meno avrebbero potuto mandare all’ospedale qualcuno. Ma ora non si trovava nelle discoteche di periferia, era alla Secon, e si era comportato secondo le leggi tacitamente vigenti in quel luogo.

Quel giorno le cinque e mezzo arrivarono lentamente, dopo la rabbia si fece strada il timore per un’eventuale ripercussione dell’accaduto, d’altronde, Giangi, come lui stesso chiaramente sottolineò più e più volte  era inserito in giri che coinvolgevano le alte sfere.
Alle cinque e trentacinque stimbrò, uscì dalla porta automatica in fondo all’imponente atrio che ospitava la reception al piano terra, i raggi rossi del sole al tramonto investivano il parchetto di Piazzale Cadorna dando una sensazione di estemporaneità, il fresco di fine marzo era ancora pungente e Cristian si chiuse tra il baveri del cappotto, si sedette su una panchina di pietra, sfilò il cellulare dalla tasca interna e sfogliando la rubrica selezionò il nome di Paolo Robba.