TITOLO ROMANZO

UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.
(Gli episodi vengono pubblicati in versione ridotta rispetto all'originale)

venerdì 29 marzo 2013

Un giorno a caso ma per sempre (2a Puntata)



UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.

(2a Puntata)


[Qualche tempo prima. NdA.]

Gli occhi gonfi di lacrime non le permettevano di distinguere i dettagli e le guglie svanivano nel grigiore del cielo meneghino come nella sfumatura di qualche acquarello. Le mani sudate e appiccicose non riuscivano a lasciarsi stare mentre un brivido morboso le colava lungo la schiena.
“E adesso?” si domandò Dana. 
Alzò lo sguardo confuso verso il cielo, lo rindirizzò di fronte a lei e nuovamente verso l’alto. Figure demoniache puntavano su di lei. In cima all’edificio, a strapiombo sul corso, i doccioni la scrutavano minacciosi con le loro ali spiegate e le fauci aperte. Gelidi nelle loro pelli di pietra vigilavano sopra il suo capo scrutando con attenzione ogni movimento del mondo sottostante.
Il fluire della folla era come correnti artiche che la sfioravano senza lasciare traccia. Il brusio e il cincischiare risuonavano nelle sue orecchie solleticando l’isteria del suo sistema nervoso. Chiuse il bavero del cappotto, strizzò gli occhi, fece un respiro più profondo, si guardò intorno senza vedere niente come se guardasse attraverso le lenti appannate di occhiali troppo spessi. 
A pochi metri, l’uscita in superficie della metropolitana vomitava fiumane di corpi mentre altrettanti si stipavano frettolosamente nel suo budello. Si guardò intorno nuovamente, picchiò un poco i piedi per risvegliarli dal torpore che li aveva annichiliti, cinque minuti di attesa che sembravano ore. 
Un folto manipolo di gitanti la urtò facendola barcollare per un attimo, seguivano una bandierina ridicola portata a spasso da una altrettanto ridicola guida turistica. Li seguì più per istinto che per desiderio. Per l’istinto di levarsi da quella maledetta vicinissima uscita della linea sotterranea.

Bandierina era la leader, impartiva indicazioni a destra e a manca, forniva particolari a destra e a manca, guidava i suoi proseliti a destra e a manca. Nessuno osava sindacare una sua esternazione e le timide domande di approfondimenti venivano liquidate frettolosamente e con pochi dettagli. Si muoveva a passi brevi e veloci, non superava il metro e cinquanta e dall’inizio degli anni novanta era il cicerone più conosciuto ed apprezzato dalle combriccole di giapponesi in vacanza nella capitale italiana del fashion. “Capitale del fashion” perché di quello si trattava. Il monumenti, le piazze, i teatri erano il contorno della portata principale: Via Monte Napoleone. I negozi di alta moda e in particolar modo le loro vetrine riscuotevano più scatti di qualunque altro Duomo o Castello Sforzesco e Bandierina lo sapeva bene.
Da vent’anni percorreva lo stesso circuito, da vent’anni ripeteva la stessa cantilena, da vent’anni aveva stampato in viso lo stesso sorriso accondiscendente che vestono i venditori con i propri clienti. Da Kyoto, sua città natale, portò con se un sacco di giapponesitudine e un dizionario di italiano, scekerò per bene, aggiunse una spruzzata di modi gentili e un paio di inchini, guarnì con una cartina del “triangolo della moda” e business fu. Il diffidente Sol Levante sembrò che non aspettasse altro: una giapponese che ne sapesse più di un milanese di Milano, o per lo meno, che ne sapesse più di un milanese di D&G o Armani.
Dana salì la gradinata per raggiungere la bandierina che si era fermata davanti a uno dei tre portoni che davano accesso al monumento. Cercava riparo in quella moltitudine di macchine fotografiche che si dileguò subitaneamente dentro lo stomaco dell’edificio. Rimase sola di fronte al cartello marrone che sembrava essere di grande interesse per Bandierina e i suoi compari.
“Duomo”, riportava la scritta bianca. Sotto, un testo per lei indecifrabile, la storia dell’edificio. La storia che i visitatori sarebbero stati disposti ad accettare, la storia che la Santa Madre Chiesa era disposta a divulgare. La storia tacitata rimane nella leggenda.

Era una fredda notte invernale, una di quelle notti che a Milano ti gelano le giunture delle ossa, una di quelle in cui il grigiore pallido della nebbia attutisce ogni suono e isola ogni vivente, era il 1386, data ancora incisa a memoria su una delle pietre più antiche della basilica meneghina. Il Signore di Milano dormiva crogiolandosi tra rosse coperte trapuntate all’ombra del baldacchino intarsiato in legno di noce quando un forte odore di uova marce cominciò ad arrampicarsi sul suo pizzetto canuto per essere fastidiosamente percepito dal suo naso prominente. Fece un salto nel dormiveglia per essere poi ritrasportato alla realtà da un rumore di zoccoli chiaramente molto prossimi al suo giaciglio. Si strofinò gli occhi intimorito dai pungenti vapori sulfurei e dalla chiara presenza di qualcunchè al suo fianco, stentò ad aprire le palpebre nella speranza che il sogno svanisse, ma sogno non fu. Un dito puntava su di lui, proprio nel mezzo degli occhi, una mano ruvida con unghie lunghe e giallognole era proprio davanti al suo viso, puntava in mezzo alla sua fronte, lo indicava; sfocò un poco la vista per vedere oltre la penombra della stanza, per concedersi di capire chi fosse quello scellerato che disturbava il suo sonno principesco. Una figura cominciò a delinearsi proprio al proferire delle prime parole:
“Mi nutrirò della tua anima”.
Una lama gelata trafisse il suo petto all’udire quelle parole e la paralisi lo colse nel vedere l’essere che le pronunciava. Un mantello rosso infuocato avvolgeva la nera figura cornuta, dalle balze spuntavano zoccoli caprini e dal colletto una enorme testa deforme con prominenti zanne canine. La voce cavernosa continuò: ”Costruirai una chiesa per me, un tempio dove le mie raffigurazioni domineranno sulle genti. Edificherai la casa del male nel centro della tua città! Mi sazierò della tua anima qualora non adempirai ai tuoi doveri verso di me!”.
Il Signore di Milano si senti mancare, il cuore impazzava nel petto un cerchio stringeva la testa e serrava la mascelle così violentemente da non concedere a nessun suono di uscire dalla sua bocca, si coprì con l’avambraccio tremante il viso e quando lo scostò dalle ampie finestre filtrava la luce del mattino. Pochi giorni dopo, gli accordi con l’arcivescovo erano già presi e definiti. Si sarebbe costruito il Duomo di Milano, che il Signore di Milano non ebbe mai la possibilità di vedere ultimato ma che porterà inciso nelle sue pietre 96 doccioni raffiguranti demoni e diavoli.

Fissando la scritta bianca, vide la vista sfocare lentamente. In lei cominciò a farsi strada la sensazione fin troppo conosciuta. Le orecchie fischiavano e i rumori diventavano un cupo ronzio. Il fiato diventava corto. “Muoio!”.
Il cuore impazzava nel petto, si sedeva ma non si rilassava, si alzava e diventava frenetica, si fermava impazziva. Nella testa il vortice, nelle braccia il formicolio, nelle mani il gelo. Voleva urlare ma non lo fece perché non si ricordava come far uscire la voce, voleva correre ma le gambe erano diventate di piombo. Era prigioniera del suo corpo, era prigioniera delle sue sensazioni.
 “Tutto ok?!”. Una mano si posò sulla spalla,
Sulle prime non si accorse del contatto, fintanto che quella mano aliena comincio a stringere con più decisione, “Tutto ok?!!”
Dopo un attimo di confusione focalizzò il viso e abbracciò il corpo che stava dietro a quell’arto, ora non più estraneo, come se volesse farselo entrare dentro, sentirne la vita. Allontanare il gelo.
“Antòn, grazie… grazie… grazie…” sussurrò ancora con una voce tremula e il fiato rotto “pensavo non ti fossi ricordato.”
“Piccola…” la tranquillizzo l’uomo e poi allontanandola pacatamente da se prosequì: “Bello, vero?”
“Cosa?” rispose la ragazza come se sei fosse appena svegliata da un incubo.
“Il Duomo… la Piazza, qui in generale!”.
“Si, si”, deglutendo forzatamente.
Intorno a lei cominciarono a prendere forma figure, edifici e strade che fino ad un attimo fa erano solo un manto grigio che la opprimeva.
Il via vai dei piccioni, della gente, i mimi travestiti da statue con i visi imbellettati di cerone bianco che non tradiva un’emozione. 
“Sei sempre bellissima…” continuò lui per interrompersi un secondo dopo: ”ma come è andato il viaggio?”
“Antòn, sono a secco, ho finito i soldi, non so come fare. A occhio e croce ho solo i soldi per sopravvivere qualche giorno, mi sa che ho fatto una cavolata! Non sapevo che fare. Ero in mezzo ad una strada, mio fratello…”
Antòn la interruppe con una dolce risolutezza:” Non ti preoccupare, si risolve, nessun brutto pensiero ora, ok!? “, “...non sei sola..” 
Sorrise e le prese la mano: ”Dai, andiamo che sarai stanca…”

mercoledì 6 marzo 2013

Un giorno a caso ma per sempre (1a Puntata)


UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.

(1a Puntata)


Cazzo, cazzo, cazzo! E muoviti! …1 minuto e mezzo…, ma non è possibile, non è possibile! Dio mio! Muoviti!
Camminava freneticamente su e giù lungo la banchina della metro “verde” di Piazzale Loreto gettando occhiate di odio al cartellone elettronico che segnava il tempo rimanente all’arrivo del treno. Direzione Assago o Abbiategrasso, uno dei due, era sufficiente arrivasse in Stazione Centrale, e in fretta.
Stringeva le mani convulsamente, stringeva i pugni freneticamente, li rilasciava, mordeva il labbro inferiore, respirava affannosamente, occhi e testa non si davano tregua e dopo uno sbuffo gettava una sbirciata nuovamente al cartellone, sempre 1 minuto.
Saltava da un piede all’altro come se il pavimento fosse infuocato, un cerchio alla testa stringeva le tempie fino al dolore e il cuore galoppava come Varenne sulla dirittura di arrivo. Guardò nuovamente il cartellone: ancora un minuto.
Sul muro antistante la banchina i valori borsistici proiettati erano la magica attrazione che gli altri quasi-passeggeri fingevano di seguire con attenzione per non farsi importunare da insistenti richieste di elemosina di zingare corredate di pargolo piangente, da suonatori di fisarmonica, zingari pure loro, da barboni accartocciati contro un muro, quelli non importunano ma fanno male agli occhi e puzzano, da tossici “scusa, c’hai della moneta”, da bande di ragazzini tanto rumorosi quanto implumi che ti spintonano e magari ti mandano pure “affanculo” perché sono tosti.
Cristian bruciava e alla gente non interessava, era solo una mattonella occupata, tutti rapiti da quel maledetto di un NASDAQ. A Cristian scoppiava il cuore, ma il mondo sembrava sentire solo il boom supersonico di un sempre dietro l’angolo boom economico che non arrivava mai. Cristian sudava freddo ma il mondo non lo sentiva perché tanto la puzza del barbone mascherava tutto. Maledetto barbone!
Muoviti, muoviti! MUOVITI! Metro di merda!
1 minuto.
30 secondi, 29, 28…9, 8, 7…0
Dove è?!  Cazzo!
Dal tunnel il suono cupo della locomotiva in arrivo si faceva sempre più vicino, i fari cominciavano a proiettare sulla parete i loro fasci di luce.

Quella mattina si alzò dal letto come ogni mattina, si lavò la faccia come ogni mattina, si preparò il caffè come ogni mattina, e come ogni mattina rovesciò zucchero per tutto il suo piccolo cucinino; a quel punto si sedette sul divano e accese la tivù sul canale che trasmetteva il telegiornale flash che seguì distrattamente come ogni mattina elaborando giusto tre o quattro frasi del conduttore per poterle così ridistribuire una volta al lavoro, naturalmente infarcite di pathos ed ricamate di cazzo e figa.
Si alzò così dal divano e andò a pisciare mentre il suo cellulare suonava per la terza volta la sveglia del mattino, e avrebbe fatto così ogni sei minuti fintanto che il proprietario non avesse deciso di premere quel dannato stop; si lavò i denti e subito dopo sciacquò le macchie gialle che lasciò nel lavandino con la minzione mattutina.
Da fuori un sole timido entrava dalle finestre, scostò la tenda e sbirciò fuori alla ricerca di un sorriso sul suo volto, era così dannatamente meteoropatico che passava da attimi di euforia a momenti di depressione secondo le previsioni meteo, ma in realtà lo scrutare il cielo per un raggio di luce non lo illuminava più.
I pensieri volarono a Dana e alla cena di lavoro che non l’aveva riportata a casa la sera precedente… Avrà dormito da Serena…

Tagliò corto le digressioni quando partì dal cellulare la quarta serie di squilli, spense la funzione “sveglia” e come ogni mattina si rese conto dell’ora troppo tarda e così, come ogni mattina, la vestizione si trasformava il una corsa con il tempo: felpa, jeans…
Si, si vanno bene quelli di ieri, le scarpe? Ma dove è l’altra? Ma porca... ok…le ho tolte…ok trovata.. ma come cazzo fa ad infilarsi tutte le volte sotto il divano. Il giubbotto...
Infilò così la porta alla velocità di un ninja e se non fosse stato per il calcio che diede allo zerbino uscendo, probabilmente non si sarebbe accorto della lettera che ci giaceva sopra.