UN GIORNO A CASO MA PER SEMPRE.
(2a Puntata)
[Qualche tempo prima. NdA.]
Gli
occhi gonfi di lacrime non le permettevano di distinguere i dettagli e le
guglie svanivano nel grigiore del cielo meneghino come nella sfumatura di qualche
acquarello. Le mani sudate e appiccicose non riuscivano a lasciarsi stare
mentre un brivido morboso le colava lungo la schiena.
“E adesso?” si domandò Dana.
Alzò lo sguardo confuso verso il cielo, lo rindirizzò di fronte a lei e
nuovamente verso l’alto. Figure demoniache puntavano su di lei. In cima
all’edificio, a strapiombo sul corso, i doccioni la scrutavano minacciosi con
le loro ali spiegate e le fauci aperte. Gelidi nelle loro pelli di pietra vigilavano
sopra il suo capo scrutando con attenzione ogni movimento del mondo sottostante.
Il fluire della folla era come correnti artiche che la sfioravano senza
lasciare traccia. Il brusio e il cincischiare risuonavano nelle sue orecchie solleticando
l’isteria del suo sistema nervoso. Chiuse il bavero del cappotto, strizzò gli
occhi, fece un respiro più profondo, si guardò intorno senza vedere niente come
se guardasse attraverso le lenti appannate di occhiali troppo spessi.
A pochi metri, l’uscita in superficie della metropolitana vomitava fiumane di corpi
mentre altrettanti si stipavano frettolosamente nel suo budello. Si guardò
intorno nuovamente, picchiò un poco i piedi per risvegliarli dal torpore che li
aveva annichiliti, cinque minuti di attesa che sembravano ore.
Un folto manipolo di gitanti la urtò facendola barcollare per un attimo, seguivano
una bandierina ridicola portata a spasso da una altrettanto ridicola guida
turistica. Li seguì più per istinto che per desiderio. Per l’istinto di levarsi
da quella maledetta vicinissima uscita della linea sotterranea.
Bandierina
era la leader, impartiva indicazioni a destra e a manca, forniva particolari a
destra e a manca, guidava i suoi proseliti a destra e a manca. Nessuno osava
sindacare una sua esternazione e le timide domande di approfondimenti venivano
liquidate frettolosamente e con pochi dettagli. Si muoveva a passi brevi e
veloci, non superava il metro e cinquanta e dall’inizio degli anni novanta era
il cicerone più conosciuto ed apprezzato dalle combriccole di giapponesi in
vacanza nella capitale italiana del fashion. “Capitale del fashion” perché di
quello si trattava. Il monumenti, le piazze, i teatri erano il contorno della
portata principale: Via Monte Napoleone. I negozi di alta moda e in particolar
modo le loro vetrine riscuotevano più scatti di qualunque altro Duomo o
Castello Sforzesco e Bandierina lo sapeva bene.
Da
vent’anni percorreva lo stesso circuito, da vent’anni ripeteva la stessa
cantilena, da vent’anni aveva stampato in viso lo stesso sorriso
accondiscendente che vestono i venditori con i propri clienti. Da Kyoto, sua
città natale, portò con se un sacco di giapponesitudine e un dizionario di
italiano, scekerò per bene, aggiunse una spruzzata di modi gentili e un paio di
inchini, guarnì con una cartina del “triangolo della moda” e business fu. Il
diffidente Sol Levante sembrò che non aspettasse altro: una giapponese che ne
sapesse più di un milanese di Milano, o per lo meno, che ne sapesse più di un
milanese di D&G o Armani.
Dana salì la gradinata per raggiungere la bandierina che si era fermata davanti
a uno dei tre portoni che davano accesso al monumento. Cercava riparo in quella
moltitudine di macchine fotografiche che si dileguò subitaneamente dentro lo
stomaco dell’edificio. Rimase sola di fronte al cartello marrone che sembrava
essere di grande interesse per Bandierina e i suoi compari.
“Duomo”,
riportava la scritta bianca. Sotto, un testo per lei indecifrabile, la storia
dell’edificio. La storia che i visitatori sarebbero stati disposti ad accettare,
la storia che la Santa Madre Chiesa era disposta a divulgare. La storia tacitata
rimane nella leggenda.
Era
una fredda notte invernale, una di quelle notti che a Milano ti gelano le
giunture delle ossa, una di quelle in cui il grigiore pallido della nebbia
attutisce ogni suono e isola ogni vivente, era il 1386, data ancora incisa a
memoria su una delle pietre più antiche della basilica meneghina. Il Signore di
Milano dormiva crogiolandosi tra rosse coperte trapuntate all’ombra del
baldacchino intarsiato in legno di noce quando un forte odore di uova marce
cominciò ad arrampicarsi sul suo pizzetto canuto per essere fastidiosamente
percepito dal suo naso prominente. Fece un salto nel dormiveglia per essere poi
ritrasportato alla realtà da un rumore di zoccoli chiaramente molto prossimi al
suo giaciglio. Si strofinò gli occhi intimorito dai pungenti vapori sulfurei e
dalla chiara presenza di qualcunchè al suo fianco, stentò ad aprire le palpebre
nella speranza che il sogno svanisse, ma sogno non fu. Un dito puntava su di
lui, proprio nel mezzo degli occhi, una mano ruvida con unghie lunghe e
giallognole era proprio davanti al suo viso, puntava in mezzo alla sua fronte,
lo indicava; sfocò un poco la vista per vedere oltre la penombra della stanza,
per concedersi di capire chi fosse quello scellerato che disturbava il suo sonno
principesco. Una figura cominciò a delinearsi proprio al proferire delle prime
parole:
“Mi
nutrirò della tua anima”.
Una
lama gelata trafisse il suo petto all’udire quelle parole e la paralisi lo
colse nel vedere l’essere che le pronunciava. Un mantello rosso infuocato
avvolgeva la nera figura cornuta, dalle balze spuntavano zoccoli caprini e dal
colletto una enorme testa deforme con prominenti zanne canine. La voce
cavernosa continuò: ”Costruirai una chiesa per me, un tempio dove le mie
raffigurazioni domineranno sulle genti. Edificherai la casa del male nel centro
della tua città! Mi sazierò della tua anima qualora non adempirai ai tuoi
doveri verso di me!”.
Il
Signore di Milano si senti mancare, il cuore impazzava nel petto un cerchio
stringeva la testa e serrava la mascelle così violentemente da non concedere a
nessun suono di uscire dalla sua bocca, si coprì con l’avambraccio tremante il
viso e quando lo scostò dalle ampie finestre filtrava la luce del mattino.
Pochi giorni dopo, gli accordi con l’arcivescovo erano già presi e definiti. Si
sarebbe costruito il Duomo di Milano, che il Signore di Milano non ebbe mai la
possibilità di vedere ultimato ma che porterà inciso nelle sue pietre 96
doccioni raffiguranti demoni e diavoli.
Fissando la scritta bianca, vide la vista sfocare lentamente. In lei
cominciò a farsi strada la sensazione fin troppo conosciuta. Le orecchie
fischiavano e i rumori diventavano un cupo ronzio. Il fiato diventava corto. “Muoio!”.
Il cuore impazzava
nel petto, si sedeva ma non si rilassava, si alzava e diventava frenetica, si
fermava impazziva. Nella testa il vortice, nelle braccia il formicolio, nelle
mani il gelo. Voleva urlare ma non lo fece perché non si ricordava come far
uscire la voce, voleva correre ma le gambe erano diventate di piombo. Era
prigioniera del suo corpo, era prigioniera delle sue sensazioni.
“Tutto ok?!”. Una mano si posò sulla
spalla,
Sulle
prime non si accorse del contatto, fintanto che quella mano aliena comincio a
stringere con più decisione, “Tutto ok?!!”
Dopo
un attimo di confusione focalizzò il viso e abbracciò il corpo che stava dietro
a quell’arto, ora non più estraneo, come se volesse farselo entrare dentro,
sentirne la vita. Allontanare il gelo.
“Antòn,
grazie… grazie… grazie…” sussurrò ancora con una voce tremula e il fiato rotto
“pensavo non ti fossi ricordato.”
“Piccola…”
la tranquillizzo l’uomo e poi allontanandola pacatamente da se prosequì:
“Bello, vero?”
“Cosa?”
rispose la ragazza come se sei fosse appena svegliata da un incubo.
“Il
Duomo… la Piazza, qui in generale!”.
“Si,
si”, deglutendo forzatamente.
Intorno
a lei cominciarono a prendere forma figure, edifici e strade che fino ad un
attimo fa erano solo un manto grigio che la opprimeva.
Il
via vai dei piccioni, della gente, i mimi travestiti da statue con i visi
imbellettati di cerone bianco che non tradiva un’emozione.
“Sei sempre bellissima…” continuò lui per interrompersi un secondo dopo: ”ma come è andato il viaggio?”
“Antòn, sono a secco, ho finito i soldi, non so come fare. A occhio e croce ho solo i soldi per sopravvivere qualche giorno, mi sa che ho fatto una cavolata! Non sapevo che fare. Ero in mezzo ad una strada, mio fratello…”
“Sei sempre bellissima…” continuò lui per interrompersi un secondo dopo: ”ma come è andato il viaggio?”
“Antòn, sono a secco, ho finito i soldi, non so come fare. A occhio e croce ho solo i soldi per sopravvivere qualche giorno, mi sa che ho fatto una cavolata! Non sapevo che fare. Ero in mezzo ad una strada, mio fratello…”
Antòn
la interruppe con una dolce risolutezza:” Non ti preoccupare, si risolve,
nessun brutto pensiero ora, ok!? “, “...non sei sola..”
Sorrise e le prese la
mano: ”Dai, andiamo che sarai stanca…”
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